Dico adunque che giá erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia cittá di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantitá di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, inverso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.
E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl’infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate. E piú avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’ sani infermitá o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tócca o adoperata pareva seco quella cotale infermitá nel toccator trasportare. Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire, il che se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fede degna persona udito l’avessi.
Dico che di tanta efficacia fu la qualitá della pestilenza narrata nell’appiccarsi da uno ad altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermitá, tócca da uno altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della ’nfermitá il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte, un dí, cosí fatta esperienza, che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermitá morto gittati nella via publica ed avvenendosi ad essi due porci, e quegli, secondo il lor costume, prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, ammenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure ed imaginazioni in quegli che rimanevano vivi: e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e cosí faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente ed il guardarsi da ogni superfluitá avesse molto a cosí fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, ed in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi vini temperatissimamente usando ed ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano, il bere assai ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e cosí come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere.
Dico che di tanta efficacia fu la qualitá della pestilenza narrata nell’appiccarsi da uno ad altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermitá, tócca da uno altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della ’nfermitá il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte, un dí, cosí fatta esperienza, che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermitá morto gittati nella via publica ed avvenendosi ad essi due porci, e quegli, secondo il lor costume, prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, ammenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure ed imaginazioni in quegli che rimanevano vivi: e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e cosí faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente ed il guardarsi da ogni superfluitá avesse molto a cosí fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, ed in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi vini temperatissimamente usando ed ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano, il bere assai ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e cosí come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere.
Ed in tanta afflizione e miseria della nostra cittá era la reverenda autoritá delle leggi, cosí divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sí come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o si di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era, d’adoperare.
Alcuni erano di piú crudel sentimento, come che per avventura piú fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né cosí buona come il fuggir loro davanti:
E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la caritá degli amici, e di questi fûr pochi, o l’avarizia de’ serventi li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quegli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, ed i piú, di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici, ed avere scarsitá di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito, che niuna quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane o altro, ed a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che ad una femina avrebbe fatto, solo che la necessitá della sua infermitá il richiedesse; il che in quelle che ne guerirono fu forse di minore onestá, nel tempo che succedette, cagione. Ed oltre a questo ne seguí la morte di molti che per avventura, se stati fossero aiutati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella cittá la moltitudine di quegli che di dí e di notte morieno, che uno stupore era ad udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessitá, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi.
…addivenne, sí come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedí mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre, quale a sí fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne, tutte l’una all’altra o per amistá o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il ventiottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma ed ornata di costumi e di leggiadra onestá. Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa, che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per l’ascoltate, nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere, che allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano, non che alla loro etá, ma a troppo piú matura larghissime; né ancora dar materia agl’invidiosi, presti a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l’onestá delle valorose donne con isconci parlari. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per nomi alle qualitá di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle; delle quali la prima, e quella che di piú etá era, Pampinea chiameremo e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, ed appresso Lauretta diremo alla quinta ed alla sesta Neifile, e l’ultima Elissa non senza cagion nomeremo. Le quali, non giá da alcuno proponimento tirate, ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo piú sospiri, lasciato stare il dir de’ paternostri, seco della qualitá del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare; e dopo alcuno spazio, tacendo l’altre, cosi Pampinea cominciò a parlare:
— Donne mie care, voi potete, cosí come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascun che ci nasce, la sua vita, quanto può, aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo, tanto che alcuna volta è giá addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi ed a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedi che noi possiamo! Ognora che io vengo ben ragguardando alli nostri modi di questa mattina ed ancora a quegli di piú altre passate, e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io comprendo, e voi similemente il potete comprendere, ciascuna di noi di se medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avveggendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per noi a quello di che ciascuna meritamente teme alcun compenso. Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramenti che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d’ascoltare se i frati di qua entro, de’ quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, ne’ nostri abiti, la qualitá e la quantitá delle nostre miserie. E se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi da torno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l’autoritá delle publiche leggi giá condannò ad esilio, quasi quelle schernendo per ciò che sentono gli esecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra cittá, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini ed in istrazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non «I cotali son morti» e «Gli altrettali sono per morire»; e se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo. E se alle nostre case torniamo, non so se a voi cosí come a me addiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare, e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile non so donde in loro nuovamente venuta spaventarmi. Per le quali cose, e qui e fuori di qui ed in casa mi sembra star male, e tanto piú ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. Ed ho sentito e veduto piú volte, se pure alcuni ce ne sono, quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l’appetito le cheggia, e soli ed accompagnati, di dí e di notte, quelle fare che piú di diletto lor porgono; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte dell’obedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute. E se cosí è, che essere manifestamente si vede, che facciam noi qui? che attendiamo? che sognamo? Perché piú pigre e lente alla nostra salute che tutto il rimanente de’ cittadini siamo? Reputianci noi men care che tutte l’altre? o crediamo, la nostra vita con piú forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli altri sia, e cosí di niuna cosa curar dobbiamo la quale abbia forza d’offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate, ché bestialitá è la nostra se cosí crediamo; quante volte noi ci vorrem ricordare clienti e quali sieno stati i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo apertissimo argomento. E per ciò, acciò che noi per ischifiltá o per trascutaggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrá che a me ne parrebbe: io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti esempli degli altri, onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce n’andassimo a stare, e quivi quella festa, quell’allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, ed i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, ed il cielo piú apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto piú belle sono a riguardare che le mura vote della nostra cittá. Ed òvvi, oltre a questo, l’aere assai piú fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia maggiore, e minore il numero delle noie: per ciò che, quantunque quivi cosí muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere, quanto vi sono piú che nella cittá rade le case e gli abitanti. E qui d’altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con veritá dire molto piú tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate. Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose opportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopraggiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice piú a noi l’onestamente andare, che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente.
L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan giá piú particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: — Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò cosí da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sí fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provvedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose, per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo piú tosto e con meno onor di noi che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provvederci avanti che cominciamo. — Disse allora Elissa: — Veramente gli uomini sono delle femine capo, e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono chi qua e chi lá in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: ed il pregare gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sí fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua.
Mentre tra le donne erano cosí fatti ragionamenti, ed ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto, che meno di venticinque anni fosse l’etá di colui che piú giovane era di loro; ne’ quali né perversitá di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De’ quali l’uno era chiamato Panfilo e Filostrato il secondo e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno: ed andavan cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le lor donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: — Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, ed hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno se di prendergli a questo uficio non schiferemo. — Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de’ giovani era amata, disse: — Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai apertamente, niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’un di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sufficienti, e similmente avviso, loro buona compagnia ed onesta dover tenere, non che a noi, ma a molto piú belle e piú care che noi non siamo: ma per ciò che assai manifesta cosa è, loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo. — Disse allora Filomena: — Questo non monta niente; lá dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Iddio e la veritá l’armi per me prenderanno. Ora, fossero essi pur giá disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, [p. 23 modifica]potremmo dire, la fortuna essere alla nostra andata favoreggiarne. — L’altre, udendo costei cosí fattamente parlare, non solamente si tacquero, ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione, e pregassersi che dovesse lor piacere in cosí fatta andata lor tener compagnia. Per che, senza piú parole, Pampinea, levatasi in piè, la quale ad alcun di loro per consanguinitá era congiunta, verso loro che fermi stavano a riguardarle si fece, e con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fe’ manifesta e pregògli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener lor compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati, ma poi che videro che da dovero parlava la donna, risposero lietamente, sé essere apparecchiati: e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. Ed ordinatamente fatta ogni cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato lá dove intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il mercoledí, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor fanti ed i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della cittá, si misero in via: né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di vari albuscelli e piante tutte di verdi frondi ripiene piacevole a riguardare; in sul colmo della quale era un palagìo con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture ragguardevole ed ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con vòlte di preziosi vini: cose piú atte a curiosi bevitori che a sobrie ed oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, ed ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere. E postisi nella prima giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre ad ogni altro era piacevole giovane e pieno di motti: — Donne, il vostro senno piú che il nostro avvedimento ci ha qui guidati; io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della cittá allora che io con voi poco fa me n’uscii fuori, e per ciò o voi a sollazzare ed a ridere ed a cantare con meco insieme vi disponete; tanto, dico, quanto alla vostra dignitá s’appartiene; o voi mi licenziate che io per li miei pensier mi ritorni, e steami nella cittá tribolata. — A cui Pampinea, non d’altra maniera che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta rispose: — Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatte fuggire. Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io che cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa cosí bella compagnia è stata fatta, pensando al continuar della nostra letizia, estimo che di necessitá sia, convenire esser tra noi alcun principale, il quale noi ed onoriamo ed ubidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente vivere disporre. Ed acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della maggioranza, e per conseguente, da una parte e d’altra tratti, non possa chi nol pruova invidia avere alcuna, dico che a ciascuno per un giorno s’attribuisca ed il peso e l’onore, e chi il primo di noi esser debba nell’elezion di noi tutti sia; di quegli che seguiranno, come l’ora del vespro s’avvicinerá, quegli o quella che a colui o a colei piacerá che quel giorno avrá avuta la signoria: e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dée bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.
Queste parole sommamente piacquero, e ad una voce lei prima del primo giorno elessero, e Filomena, corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte aveva udito ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d’onore facevano chi n’era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole ed apparente; la quale, méssale sopra la testa, fu poi mentre durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza.