lunedì 3 gennaio 2011

Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò


Nel libro che Pavese aveva più caro, gli dèi e gli eroi della Grecia classica discutono il rapporto tra uomo e natura, il carattere ineluttabile del destino e la necessità del dolore.

In quest'opera lungamente maturata, e pubblicata nel 1947, che Pavese riteneva la sua più importante e duratura, l'interesse profondo per il mito, per i suoi simboli, per le sue dimensioni antropologiche e psicoanalitiche, che lo scrittore ha sempre coltivato, viene chiamato a illuminare dilemmi che sono in pari tempo privati, esistenziali e collettivi. Era stato lo stesso Pavese a dettare la presentazione del libro. Vi si legge: «Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento... Pavese si è ricordato di quand'era a scuola e di quel che leggeva. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l'assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po' straccamente e ci sbadigliano un sorriso». Nel diario Pavese annotava ancora: «Il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo - cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene - come a tutti i linguaggi - una particolare sostanza di significati; che null'altro potrebbe rendere. Quando riportiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, diciamo in mezza riga, in poche sillabe, una cosa sintetica e comprensiva, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo».


Leggi il saggio:
Mito e modernità nei Dialoghi con Leucò

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