venerdì 22 settembre 2017

LE PORTE DEL SONNO


Sunt geminae Somni portae, quarum altera fertur

cornea, qua veris facilis datur exitus umbris,

altera candenti perfecta nitens elephanto,

sed falsa ad caelum mittunt insomnia Manes


(Virgilio, Eneide, VI, vv.893-896)



 Sono due le porte del Sonno [210]; di esse una si dice sia fatta di corno [211],
 attraverso la quale è dato alle ombre vere un facile passaggio [212]
l'altra è rilucente e fatta di candido avorio, 
ma gli dèi Mani inviano al cielo attraverso di essa sogni fallaci.

[210] Sonno: figlio della Notte, gemello della morte, portatore di dolce riposo e quindi di momentaneo oblio delle sofferenze della vita; manifesta il suo potere sugli uomini e sugli stessi dèi; l'idea delle due porte è già presente in Omero (Odissea)
[211] porta fatta di corno: la porta delle vere ombre dei morti
[212] passaggio: le ombre dei trapassati attraverso questa porta arrecano ai propri cari sogni veritieri dopo la mezzanotte
[213] porta d'avorio: poiché Enea è ancora un vivente non può uscire dalla porta di corno perché non deve arrecare nessun sogno o visione che annuncia il futuro ai mortali
(Giuseppe Bonghi)


Somnus, dio del sonno, era figlio della NOTTE  insieme a suo fratello gemello THANATOS,  dio della morte. Viveva in un luogo sconosciuto, deserto, mai raggiunto dai raggi solari e possedeva una verga magica in grado di addormentare.
Era considerato benevolo e attorniato dai SOGNI. Addormentò Giove in modo che Giunone potesse vendicarsi facendo morire Eracle. Al risveglio Giove lo precipitò in mare e si salvò grazie alla madre Notte. Suo figlio MORFEO era il dio dei sogni, si mostrava ai dormienti assumendo forme diverse, come dice il nome da morphè: figura. 



Ovidio, Metamorfosi, Libro XI, Versi 592-649

(Gaetano Previati, Il giorno sveglia la notte)

Est prope Cimmerios longo spelunca recessu,
mons cavus, ignavi domus et penetralia Somni,
quo numquam radiis oriens mediusve cadensve
Phoebus adire potest: nebulae caligine mixtae
exhalantur humo dubiaeque crepuscula lucis.
Non vigil ales ibi cristati cantibus oris
evocat Auroram, nec voce silentia rumpunt
sollicitive canes canibusve sagacior anser;
non fera, non pecudes, non moti flamine rami
humanaeve sonum reddunt convicia linguae.
Muta quies habitat; saxo tamen exit ab imo
rivus aquae Lethes, per quem cum murmure labens
invitat somnos crepitantibus unda lapillis.
Ante fores antri fecunda papavera florent
innumeraeque herbae, quarum de lacte soporem
Nox legit et spargit per opacas umida terras.
Ianua, ne verso stridores cardine reddat,
nulla domo tota est, custos in limine nullus;
at medio torus est ebeno sublimis in antro,
plumeus, atricolor, pullo velamine tectus,
quo cubat ipse deus membris languore solutis.
Hunc circa passim varias imitantia formas
Somnia vana iacent totidem, quot messis aristas,
silva gerit frondes, eiectas litus harenas.
Quo simul intravit manibusque obstantia virgo
Somnia dimovit, vestis fulgore reluxit
sacra domus, tardaque deus gravitate iacentes
vix oculos tollens iterumque iterumque relabens
summaque percutiens nutanti pectora mento
excussit tandem sibi se cubitoque levatus,
quid veniat, (cognovit enim) scitatur, at illa:
Somne, quies rerum, placidissime, Somne, deorum,
pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
fessa ministeriis mulces reparasque labori,
Somnia, quae veras aequent imitamine formas,
Herculea Trachine iube sub imagine regis
Alcyonen adeant simulacraque naufraga fingant.
Imperat hoc Iuno. Postquam mandata peregit,
Iris abit: neque enim ulterius tolerare soporis
vim poterat, labique ut somnum sensit in artus,
effugit et remeat per quos modo venerat arcus.
At pater e populo natorum mille suorum
excitat artificem simulatoremque figurae
Morphea: non illo quisquam sollertius alter
exprimit incessus vultumque sonumque loquendi;
adicit et vestes et consuetissima cuique
verba; sed hic solos homines imitatur, at alter
fit fera, fit volucris, fit longo corpore serpens:
hunc Icelon superi, mortale Phobetora vulgus
nominat; est etiam diversae tertius artis
Phantasos: ille in humum saxumque undamque trabemque,
quaeque vacant anima, fallaciter omnia transit;
regibus hi ducibusque suos ostendere vultus
nocte solent, populos alii plebemque pererrant.
Praeterit hos senior cunctisque e fratribus unum
Morphea, qui peragat Thaumantidos edita, Somnus
eligit et rursus molli languore solutus
deposuitque caput stratoque recondidit alto.

Dove stanno i Cimmeri c'è una spelonca dai profondi recessi, una montagna cava, dimora occulta del pigro Sonno, 
nella quale con i suoi raggi, all'alba, al culmine o al tramonto, mai può penetrare il sole: dal suolo, in un chiarore 
incerto di crepuscolo, salgono senza posa nebbie e foschie.
Qui non c'è uccello dal capo crestato che vegli e chiami col suo canto l'aurora; e non rompono, col loro richiamo,
 il silenzio cani all'erta od oche più sagaci dei cani.
Non si ode suono di fiere o di armenti, non di rami mossi da un alito di vento, non si ode alterco di voci umane.
Vi domina il silenzio e quiete. Solo da un anfratto della roccia sgorga un rivolo del Lete, la cui acqua scivola via mormorando tra un fruscio di sassolini e concilia il sonno.
Davanti all'ingresso dell'antro fiorisce un mare di papaveri e un'infinità di erbe, dalla cui linfa l'umida Notte attinge
 il sopore per spargerlo sulle terre immerse nel buio.
In tutta la casa non v'è una porta, perché i cardini girando non stridano; nessuno sta di guardia sulla soglia.
Al centro della grotta si alza un letto d'ebano imbottito di piume del medesimo colore e coperto di un drappo scuro,
 dove con le membra languidamente abbandonate dorme il nume.
Tutto intorno giacciono alla rinfusa, negli aspetti più diversi, le chimere dei Sogni, tante quante sono le spighe nei
 campi, le fronde nei boschi, o quanti i granelli di sabbia spinti sul lido.
Quando la vergine (Iride) vi entrò, scostando con le mani i Sogni per poter passare, al fulgore della sua veste s'illuminò 
la sacra dimora, e il nume, schiudendo a malapena gli occhi appesantiti dalla sonnolenza, e ancora ancora 
ricadendo,  con il mento che ciondoloni gli sbatteva in alto contro il petto, riusci finalmente a scuotersi e, 
sollevandosi sul gomito, chiese, avendola riconosciuta, perché mai fosse venuta. E lei: « Sonno, quiete d'ogni
 cosa, Sonno, dolcissimo fra i numi, pace dell'animo, che disperdi gli affanni e rianimi i corpi oppressi dal lavoro
 e li ritempri per nuove fatiche, ordina a un Sogno, che sappia imitare forme vere, i recarsi a Trachine, la città di 
Ercole, e presentarsi ad Alcione con le sembianze di Ceice, come appare un naufrago.
Lo comanda Giunone>>.
E appena ebbe assolto la missione, Iride se ne andò, perché più non resisteva al potere 
soporifero del luogo: come sentì la sonnolenza invaderle e membra, fuggì via risalendo l'arco dal quale era venuta.
 Allora il Sonno dalla marea dei suoi mille figli destò Morfeo, un talento nell'assumere qualsiasi sembianza. 
Nessun altro più abilmente di lui è in grado d'imitare l'incedere che gli si chiede, l'espressione e il timbro della voce; 
in più vi aggiunge il modo di vestire e le parole che distinguono quell'individuo. Ma imita soltanto le persone, 
mentre invece con altro figlio che diventa fiera, uccello o lunghissima serpe: gli dei lo chiamano Icelo, Fobètore 
i comuni mortali. Ve n'è poi un terzo, Fàntaso, che si distingue per valentia diversa: si trasforma con l'inganno 
in terra, roccia, acqua o tronco, insomma in qualsiasi cosa inanimata.
Alcuni appaiono di notte a re e condottieri, altri si aggirano tra la gente del popolo.
Il venerando Sonno tralasciò tutti questi e fra tanti figli scelse appunto il solo Morfeo per eseguire gli ordini recati
dalla figlia di Taumante. Poi, risciogliendosi in molle languore, reclinò il capo, sprofondando nelle coltri 
del suo letto.