giovedì 7 gennaio 2010

Guido Cavalcanti

Chi è questa che vèn ch'ogn'om la mira,
che fa tremar di chiaritate l'are
e mena seco Amor, sì che parlare
null'omo pote, ma ciascun sospira?


O Deo, che sembra quando li occhi gira!
dical'Amor, ch'i' nol savria contare:
cotanto d'umiltà donna mi pare,
che ogn'altra ver' di lei i' la chiam' ira.


Non si poria contar la sua piagenza,
ch'a le' s'inchin' ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.


Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose 'n noi tanta salute,
che propiamente n'avian canoscenza.




[…] la poesia di Guido, con la sua intensa capacità di esprimere «lo sbigottimento che accompagna il più completo abbandono alla potenza del sentimento amoroso» (B. Nardi), è quasi un unicum. Ce la fa sentire vicina a Catullo o a Saffo il «senso dell’eros che riempie e distrugge la vita, dell’eros come fonte di poesia e nello stesso tempo come totalità dell’esistenza e destino senza residui e senza scampo», indicato da Antonio La Penna, appunto, come presupposto della «rivoluzione morale» catulliana; d’altra parte, la profonda «ansia dell’assoluto sentito come inattingibile approdo» (M. Marti) troverà lontana rispondenza in Leopardi. […] «la disintegrazione dell’unità dell’essere e della coscienza, e la conseguente vanificazione della possibilità di dire “io”, non potrebbero essere condotte più avanti» (S. Giovannuzzi). […]
Altra caratteristica essenziale della poesia di Guido è la struttura rigorosamente intellettualistica, organizzata secondo un’intrinseca coerenza logica, che ha certo contribuito non poco a farlo giudicare da Francesco de Sanctis «artefice più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma». Ma proprio in ciò consiste, a ben vedere, la sua grandezza: in lui l’altezza d’ingegno è la condizione stessa della creazione poetica; e il rigore logico e consequenziario non indebolisce l’elaborazione fantastica, anzi, la fonda e la nutre, e ne è a sua volta nutrito: la sintassi si fa chiara e schietta, funzionale ad un’espressione dolce e melodica, tendente «verso una semplicità classicamente armoniosa».


(Dall’Introduzione di Letterio Cassata a G. Cavalcanti, Rime, Donzelli, Roma, 1998 [1995]).


Nelle sue poesie [di Cavalcanti] le dramatis personae più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama “spiriti”. Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d’amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce. Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche: 1) è leggerissimo; 2) è in movimento; 3) è un vettore d’informazione. […]
In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non possiamo non renderci conto della sua consistenza ma solo dei suoi effetti.


(I. Calvino, Lezioni americane, I Leggerezza, Garzanti, Milano, 1988).