Beppe Sebaste, Come impedire che con i testimoni scompaia
anche il dovere della testimonianza
C’era una volta la memoria. Non c’era bisogno di impararla a
scuola, si trasmetteva quasi da sé, da bocca a orecchio, come le storie. I
racconti di chi ci ha preceduto in questo mondo erano più ricchi e avventurosi
del Signore degli Anelli, forse
perché erano veri, narrati da testimoni reali. Testimone viene dal latino, vuol dire superstite, sopravvissuto.
L’atto del testimoniare qualcosa di non visto direttamente si chiama superstizione (senza il significato
negativo di oggi): poter parlare, come se si fosse stati testimoni oculari di
eventi anche remoti nel tempo e nello spazio.
Il Giorno della Memoria è l’anniversario di quando si
aprirono i cancelli di Auschwitz svelandone l’orrore: un’«epifania negativa»,
si disse. I testimoni – i sopravvissuti – raccontarono i dettagli della Shoah,
i campi di sterminio lucidamente e scientificamente programmati che
contraddistinsero la parabola del Nazismo […]. A partire da quell’«evento senza
testimoni» – la formula paradossale è della studiosa Shoshana Felmann, per
tagliar corto con certo revisionismo storico (o peggio negazionismo) che
pretenderebbe testimoni vivi a suffragio dell’esistenza delle camere a gas – il
concetto di testimonianza ha arricchito e drammatizzato la nostra idea di arte,
cinema e letteratura.
Giunte a noi miracolosamente dalle macerie, a volte
letteralmente in bottiglie aperte dopo anni […], le testimonianze e le memorie
dei superstiti hanno prodotto una rivoluzione nel concetto di Storia, d’ora in
poi «storia del presente». «Scrivevano tutti, dagli storici di professione ai
bambini», lasciò scritto lo storico ebreo Emmanuel Ringleblum dalle rovine del
ghetto di Varsavia. Scrivevano per lasciare traccia degli eventi che già
sfidavano, prima di Auschwitz, ogni immaginazione. Quando un certo Filip
Müller, membro dei famigerati Sonderkommando
dei campi di sterminio (ebrei addetti ad accompagnare altri ebrei nelle camere
a gas), si gettò disperatamente sotto le docce per morire insieme a un gruppo
di donne, fu da loro rigettato fuori, perché potesse vivere e testimoniare. […]
Una volta dunque c’era la memoria, le città e le piazze
pullulavano di memoria viva, passata e futura. Uomini anziani col cappello e i giornali
sotto il braccio assicuravano una presenza protettiva, e poco importa che ci
sentissimo in conflitto con loro, gli adulti: li ringraziavamo di esserci, di
tramandarci storie e valori.
Vivevamo «valori condivisi» come l’antifascismo e la pace, e
la cosa stupefacente è che erano condivisi davvero. Perché tutto questo ci
suona lontano? Altre atrocità, genocidi, offese alla dignità fisica e morale
dell’uomo non hanno mancato di prodursi in ogni parte del Pianeta, e «salvare
in memoria», oggi, significa dimenticare, cliccare un tasto e non pensarci più.
Qualcosa poi ha frantumato, insieme alla politica, il «vivere insieme», creando
tante sparse solitudini. Galleggiamo in un eterno presente, poiché senza la
memoria non c’è nemmeno futuro. Come ha scritto lo storico Georges Bensoussan (L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?),
« noi esistiamo unicamente nel tempo, solo il tempo ci permette di collocarci
in rapporto a ciò che precede e a ciò che segue, ai nostri ascendenti e
discendenti».
Le responsabilità, culturali e politiche, sono di tutti:
cosa pensare di un sondaggio nelle scuole (del 2005) che rivelò che un ragazzo
su cinque ritiene che «quanto si dice sulla Shoah sia frutto di
un’esagerazione», e che «tutti gli ebrei dovrebbero tornare in Israele»? Tornare
si badi, non «andare». Riporta in mente le scritte sui muri raccontate da Amos
Oz in Storia d’amore e di tenebre: se
nell’Europa degli anni 30 si leggeva scritto sui muri «Fuori gli Ebrei
dall’Europa», in questi anni si legge «Fuori gli Ebrei da Israele». Che
l’antisionismo sia il nuovo volto dell’antisemitismo, è un fatto.
Se è vero che oggi il surrogato della memoria avviene
intorno a quel surrogato del fuoco dei bivacchi e delle stalle, perfino della
famiglia, che è la televisione, occorre capire come questo processo di
demolizione della memoria costituito dalle tv sia un dato politico e
antropologico epocale.
Eppure è accaduto di recente, al processo per il massacro
nazista di Marzabotto, ottocento tra uomini, donne e bambini trucidati
cinquant’anni fa dai nazisti. Dopo che i documenti nascosti nell’«armadio della
vergogna» sono venuti alla luce, hanno sfilato in tribunale gli ultimi
testimoni in carne ed ossa, a raccontare, non solo per dar prova giuridica,
l’imperscrittibilità di quei crimini. Ma negli stessi giorni un altro processo
ha assolto i miltari accusati di aver insabbiato (o ignorato) cosa accadeva nel
cielo di Ustica nel 1980: il loro reato non esiste più.
Diventeremo tutti dei sans
papier, privi di identità e memoria, perfino di quella cartacea? Siamo
testimoni e attori del nostro tempo, siamo quindi responsabili dei ricordi che
abbiamo ereditato, i cui archivi rischiamo di dissipare. Memoria è atto della
mente (come suggerisce la parola dimenticare),
ma anche del cuore, come è iscritto nella parola ri-cordare. Coraggio, ricordiamoci di ricordare.
(B. Sebaste, Come impedire che con
i testimoni scompaia anche il dovere della testimonianza, in “la Repubblica
– Il Venerdì”, 26 gennaio 2007)