lunedì 29 aprile 2019

CICERONE, SOMNIUM SCIPIONIS

Il Somnium Scipionis è  la conclusione del sesto e ultimo libro del De re publica di Cicerone, un dialogo filosofico composto dal celebre oratore tra il 54 (per alcuni 55) e il 51 a.C. e che ha per tema le forme possibili di governo di uno stato (monarchia, aristocrazia e democrazia). 
Il Somnium Scipionis, descrivendo il sogno di un viaggio ultraterreno da parte di Scipione l’Emiliano, presenta la figura ideale del princeps, che rispetta e tutela le istituzioni repubblicane di Roma e si impegna per il bene supremo della patria.

Il riferimento è al testo de La Repubblica di Platone, che termina con il mito di Er.

Il brano è narrato quasi esclusivamente in prima persona da Scipione Emiliano1. Giunto a Cartagine in qualità di tribuno, va a trovare il vecchio re Massinissa, amico di Scipione l'Africano 2 suo nonno adottivo. Accolto benevolmente dal sovrano, passa tutta la serata a parlare con lui delle imprese dell'avo. Una volta addormentatosi, Scipione riceve in sogno la visita dell'Africano, che gli espone la sua futura carriera politica.

A questo punto Scipione l'Africano, aiutato da Lucio Emilio Paolo, padre naturale dell'Emiliano, descrive il destino delle anime dopo la morte. A quelli che in vita sono stati buoni governanti è destinato un posto nella Via Lattea, dove possono godere la felicità eterna. Solo questa, per l’Africano, è la vera vita.
Procede poi con la  descrizione del cosmo e alla sua disposizione. Al centro di tutto si trova la terra, circondata dalle orbite dei sette pianeti (tra cui si annoverano anche il Sole e la Luna). Al di sopra di tutto si trova il cielo delle stelle fisse, che viene mosso direttamente dall’unica divinità. La sfera posta più in basso è quella della Luna. Al di sopra di questa tutte le cose sono eterne, al di sotto invece tutto è caduco e destinato a distruzione. Muovendosi, queste sfere producono un’armonia celestiale.

Il testo della Repubblica venne riscoperto dal cardinale Angelo Mai in un codice della Biblioteca Vaticana; sul testo ciceroniano era stato copiato, senza pregiudicarne completamente la lettura, un’opera di Sant’Agostino (tecnicamente, si tratta quindi di un codice palinsesto). Per questo suo merito culturale, Leopardi gli dedicò la canzone Ad Angelo Mai (1820).