martedì 3 novembre 2020

Guido Cavalcanti

Chi è questa che vèn ch'ogn'om la mira,
che fa tremar di chiaritate l'are
e mena seco Amor, sì che parlare
null'omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira!
dical'Amor, ch'i' nol savria contare:
cotanto d'umiltà donna mi pare,
che ogn'altra ver' di lei i' la chiam' ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
ch'a le' s'inchin' ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose 'n noi tanta salute,
che propiamente n'avian canoscenza. 

ANALISI DELLA POESIA (da FareLetteratura)

Guido Cavalcanti (circa 1259-1300) è l'esponente più significativo dello stilnovo

La vita
Fiorentino di una potente famiglia di guelfi bianchi, sostenne la fazione dei Cerchi contro quella dei Donati, guelfi neri, e nel 1267 si fidanzò con Bice, figlia di Farinata degli Uberti. Fu coinvolto precocemente nelle lotte politiche della città. Nel 1280 fu tra i garanti di parte guelfa alla pace stipulata tra guelfi e ghibellini, e nel 1284 partecipò ai lavori del Consiglio Generale del Comune, insieme a B. Latini e a D. Compagni. In seguito a una disposizione emanata nel 1293 da Giano della Bella, a Cavalcanti venne vietata la partecipazione alla vita politica. Il provvedimento di ordine pubblico, volto a placare le continue liti tra fazioni rivali, non fu sufficiente. Nuovi violenti disordini cittadini costrinsero nel 1300 i Priori del Comune (fra i quali si trovava Dante, che pure considerava Cavalcanti "primo dei suoi amici") ad allontanare da Firenze i rappresentanti più turbolenti delle fazioni: Cavalcanti venne così esiliato a Sarzana, allora insalubre zona di confino. Nello stesso anno la condanna fu revocata, ma Cavalcanti rientrò a Firenze ormai ammalato e morì subito, probabilmente per febbri malariche.
Il canzoniere
Il suo canzoniere è composto di 52 testi (sonetti, canzoni e ballate) da cui non si possono ricavare indicazioni cronologiche utili per stabilire la data di composizione. Intorno al 1283 il nome di Cavalcanti doveva essere assai noto tra i poeti stilnovisti: nella Vita nuova, infatti, Dante lo considera uno dei più "famosi trovatori in quello tempo". Il tema largamente dominante del suo canzoniere è Amore, inteso come passione irrazionale che allontana l'uomo dalla conoscenza e dalla felicità speculativa, conducendolo a una "morte" che è a un tempo morale e fisica. I trattati di medicina medievale (derivati da testi arabi) ritenevano che la "malattia d'amore" (l'amor heroicus) potesse avere anche esito mortale. Nutrito di letture filosofiche e in contatto con gli ambienti averroisti di Bologna, Cavalcanti procede nei suoi testi a un'indagine sull'origine, la natura e gli effetti che la passione amorosa produce nell'uomo.

Provenienti dagli ambiti della "filosofia naturale" (fisica, astrologia, medicina e "psicologia" nel senso di "scienza dell'anima") e applicate alla passione amorosa, le sue metafore (quali la battaglia d'amore, con ferite, "sbigottimenti", intervento degli spiriti vitali, paure, fughe, distruzione e morte) prendono vita in un linguaggio drammatico e lirico che lascia nel lettore un senso di malinconia e fatalità.
(da Sapere.it)
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ITALO CALVINO HA PARLATO DI CAVALCANTI NELLA PRIMA DELLE LEZIONI AMERICANE, QUELLA SULLA LEGGEREZZA, CHE PUOI LEGGERE INTEGRALMENTE QUI

LO SCRITTORE ARRIVA AD INDIVIDUARE DUE MODELLI: CAVALCANTI versus DANTE. 


"Nelle sue poesie [di Cavalcanti] le dramatis personae più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama “spiriti”. Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d’amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce. Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche: 1) è leggerissimo; 2) è in movimento; 3) è un vettore d’informazione. […]
In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non possiamo renderci conto della sua consistenza ma solo dei suoi effetti.

(I. Calvino, Lezioni americane, "Leggerezza", Garzanti, Milano, 1988).

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UN ESEMPIO DI LEGGEREZZA: IL SONETTO  XVIII di Guido Cavalcanti


Noi siàn le triste penne isbigotite
*
Noi siàn1 le triste penne2 isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte3 dolorosamente4
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi5 diciàn6 perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente7:
la man che ci movea8 dice che sente
cose9 dubbiose10 nel core apparite11;

le quali12 hanno distrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte13,
ch’altro non n’è rimaso14 che sospiri.

Or vi preghiàn15 quanto possiàn più forte
Che non sdegn[i]ate di tenerci noi16,
tanto ch’un poco di pietà vi miri17.

siàn: siamo.penne: penne per scrivere. Anche gli altri elementi citati sono attrezzi per la scrittura: le «cesoiuzze» (piccole forbici per temperare), così come il «coltellin».
avemo scritte: abbiamo scritto.
dolorosamente: l’avverbio specifica bene l’atteggiamento degli arnesi di lavoro, che, qui personificati, sono stati designati con gli aggettivi «triste» (riferito alle penne) e «dolente» (riferito al coltellino).
vi: può essere interpretato come un a voi generico, anche se alcuni critici ritengono che il destinatario sia la donna, cui gli strumenti della scrittura si rivolgono. L’ipotesi del «voi» generico è più plausibile in quanto rientra nella richiesta di pietà, topos della lirica stilnovistica.
diciàn: diciamo.
di presente: adesso, in questo momento.
che ci movea: che ci guidava nella scrittura. Anche la mano del poeta viene fatta parlare, come gli strumenti della scrittura, ma mediante un discorso indiretto.
cose: ha valore indefinito e serve per sostantivare l’attributo che segue.
10 dubbiose: confuse, incerte, ma anche generatrici di timore.
11 apparite: apparse. Questo verbo solitamente è utilizzato per l’apparizione di cose spaventose, come ad esempio gli spettri. In questo caso si tratta della materializzazione di sentimenti. Nello stesso contesto vedi l’uso del verbo in Perché non fuoro a me gli occhi dispenti [E9], vv. 5-6: «Ch’una paura di novi tormenti / m’aparve allor […]».
12 le quali: il relativo indica la continuità tra la paura, creatasi nel cuore e avvertita anche dalla mano, e la realtà.
13 hannol…morte: lo hanno condotto così vicino alla morte.
14 rimaso: rimasto.
15 Or vi preghiàn… forte: ora vi preghiamo quanto più intensamente (fortepossiamo (possiàn). Riprende simmetricamente «Or vi diciàn» del v. 5.
16 tenerci noi: trattenerci presso di voi. Il «noi» è un anacoluto tipico del linguaggio parlato; il registro linguistico umile è idoneo a questi strumenti della scrittura, che sono semplici oggetti. De Robertis ritiene invece che si tratti di uno scambio del codice tra ed n (tipico della pratica manoscritta) e di conseguenza propone di leggere «voi».
17 Tanto…miri: finchè (in attesa che, sperando che) vi guardi un poco di pietà (Contini). Il verbo «mirare» indica un sentimento di amicizia. La formula potrebbe essere intesa come vi prendavi tocchi, cioè, in sostanza, non le siate invisi.

 Analisi del testo
Livello metricoIl sonetto è costituito classicamente da due quartine a rime incrociate, mentre le terzine presentano la variante delle tre rime, secondo lo schema: ABBA, ABBA; CDE, DCE.

Livello lessicale, sintattico, stilistico
Foneticamente non si riscontrano suoni aspri, anche se dominano nettamente i suoni fricativi. Il lessico è caratterizzato da una serie di diminutivi che danno un’impronta familiare al discorso, condotto sempre in prima persona plurale, dagli arnesi della scrittura. I periodi sono lineari, come meglio si addice ad un parlare colloquiale; non sono presenti anastrofi; la punteggiatura segue il ritmo dei versi; non sono evidenziabili né spezzature né forzature nella sintassi. L’avverbio di tempo «ora»ripetuto in modo simmetrico all’inizio della seconda quartina e della seconda terzina, sottolinea il tono confidenziale del sonetto, rimarcando lo stile colloquiale. Caratteristica di questo componimento è l’assenza degli elementi tipici del linguaggio poetico provenzale e siciliano, nonché dei gallicismi.

Livello tematicoIl sonetto, che presenta le parole chiave tipiche della poetica cavalcantiana, non descrive una realtà concreta, bensì un mondo poetico nato dalla rappresentazione degli affetti. Il sistema linguistico tende a divenire teatro: personaggi-fantasma entrano in un gioco scenico descritto dal poeta. In questo caso chi parla sono proprio gli strumenti del fare poesia, che creano una “cornice scenica” alla descrizione dell’evento amoroso. L’incipit del sonetto infatti è caratterizzato da una prima persona plurale: tanti soggetti, che sono le piccole cesoie, il coltellino, le penne, cioè gli oggetti dello scrittoio, richiamano l’attenzione di un destinatario ideale. Mentre in altri componimenti chi parlava era il testo, in questo caso i protagonisti sono degli emblemi metaforici: Cavalcanti ci vuol dire che la poesia è un «tentativo frustrato di conoscenza1»; il poeta cerca di arrivare alla conoscenza totale del fenomeno amoroso, ma non vi riesce, perché l’amore è inteso come una affezione, cioè un fenomeno passivo della coscienza, dell’anima sensitiva. L’uomo non può contemplare l’ideale di donna amata, può solo smembrare l’evento amoroso in tante piccole scene che rendono concreto il mondo interiore e le sensazioni che egli prova. Attraverso la tecnica dello straniamento, il poeta vede “vivere”, come se fosse “fuori da se stesso”, l’evento amoroso per mezzo dello studio di alcune figure simboliche (anima, mente, cuore).
Nel caso di questo sonetto lo straniamento è così forte che la fenomenologia dell’evento amoroso è descritta dagli oggetti che producono la poesia: gli strumenti del poeta si allontanano da chi li adopera facendoli scrivere «dolorosamente» (cioè costringendoli a descrivere un’esperienza di frammentazione e di alienazione che diventa quasi “morte in vita”), e raggiungono il destinatario ideale a cui raccontare questa prova conoscitiva. Improbabile che il «voi» a cui si riferiscono sia la donna amata, la madonna siciliana, perché il sonetto si chiude con una preghiera rivolta a un destinatario indefinito, che però può essere mosso da compassione nei confronti del poeta: un destinatario che può ben essere il pubblico al quale, secondo uno schema già più volte utilizzato, Cavalcanti chiede generale compassione2.
È interessante notare come le forbici, il coltellino e le «cesoiuzze» descrivano la mano che le aveva mosse: l’uso dei tempi verbali ci indica una mano che ha smesso di compiere il suo atto di scrivere («movea»), ma che è ancora viva per poter parlare e provare sentimenti («dice che sente»); la mano è moribonda, non ha forza fisica, ma è vigile ed attenta, al punto che può riferire le sensazioni paurose che sono apparse nel cuore e che lo atterriscono; l’amante è così distrutto dai sentimenti, che sono metaforizzati in fantasmi («cose dubbiose»), da essere ormai in procinto di morire. Ci troviamo di fronte a una “personificazione” degli organi, che stanno provando – come se ciascuno di essi fosse una persona a sé stante – la morte del corpo. La mano, mentre scrive, sente che le vengono meno le forze del corpo e si trova impossibilitata ad agire. Le mani dunque “intuiscono” la morte metaforica del cuore dell’innamorato.

Marcello Ciccuto, “Rime di Guido Cavalcanti”, in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, vol. I, Einaudi, Torino, 1992.cfr. Perch’i’ no spero di tornar giammai [E11]

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Compito del poeta è annotare (noto dice Dante a Bonaggiunta) e studiare le conseguenze dell’innamoramento. 

Su tale esigenza si appoggia la dottrina degli ‘spiritelli’ che sembrano regolare buona parte della vita dell’uomo e dei suoi rapporti con la donna. In particolare l’effetto di smarrimento che la bellezza della donna produce nell'animo dell'uomo è rappresentato, secondo astratti moduli della psicologia del tempo, con la personificazione delle sue facoltà vitali in spiriti e spiritelli, che lottano, sospirano, si esaltano, piangono. Seguendo la filosofia e della medicina averroistica (Averroè è l'intellettuale arabo che tradusse Aristotele e contribuì alla sua diffusione in Europa), con la dottrina degli “spiriti” si spiegano le facoltà sensoriali dell’uomo (ad esempio la vista) o i moti dell’animo (come il tremore). Gli spiriti, secondo la medicina averroistica, si muovono continuamente nel corpo umano (dal cuore alla periferia e viceversa, secondo un percorso che ricorda molto da vicino la circolazione sanguigna) e comunicano agli organi la virtù vitale.
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Una canzone (analizzata) di Guido Cavalcanti: