giovedì 26 novembre 2020

Dante Alighieri : chi era, come era?



Ritratto di Dante da parte di Boccaccio:
brano tratto da G. Boccaccio, Vite di Dante, a cura di P.G. Ricci, Milano, Mondadori, 2002, p. 31.

Boccaccio, fedele al modello delle biografie di epoca classica, descrive nella "Vita di Dante" prima l'aspetto fisico del poeta e poi offre un quadro delle sue qualità morali e intellettuali
Analizza il ritratto di Dante fatto dal Boccaccio individuando le caratteristiche del poeta e gli elementi della personalità dantesca che più affascinano il Boccaccio, integrando l'analisi con le tue conoscenze sulla vita di Dante.


"Fu adunque questo nostro poeta di mediocre [media] statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare grave e mansueto [solenne e composto], d'onestissimi panni sempre vestito in quello abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi [più] grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. […]
Ne' costumi domestici e publici mirabilmente fu ordinato e composto, e in tutti più che alcuno altro cortese e civile.[…]
Niuno altro fu più vigilante [impegnato]di lui e negli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse [e in qualunque altro impegno lo stimolasse]; intanto che più volte e la donna e la sua famiglia se ne dolsono […]
Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza […]
Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è già mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore del suo ingegno […]
Dilettossi similmente d'essere solitario e rimoto dalle genti, acciò che le sue contemplazioni non gli fossero interrotte […]
Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si disponea [per tutto il tempo in cui vi si dedicò], intanto che niuna novità che s'udisse, da quegli il poteva rimuovere.[…]
Fu ancora questo poeta di meravigliosa capacità e di memoria fermissima e di perspicace intelletto […]
D'altissimo ingegno e di sottile invenzione [creatività] fu similmente, sì come le sue opere troppo più manifestano agl'intendenti che non potrebbono fare le mie lettere [i miei scritti]"



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Dal DE VULGARI ELOQUENTIA: la scelta del volgare illustre

De vulgari eloquentia, Libro primo, XI
Il volgare italiano risuona in mille varietà diverse: cerchiamo perciò il linguaggio più elegante d’Italia, quello illustre, e per avere sgombro il cammino in questa nostra caccia, eliminando prima dalla selva i cespugli intricati e i rovi.
I Romani ritengono di aver diritto al primo posto, davanti a tutti gli altri: non a torto pertanto in questo lavoro di sradicamento o estirpazione si dia loro la precedenza, dichiarando che in nessuna trattazione di eloquenza volgare si dovrà far riferimento a loro. Affermiamo dunque che il volgare dei Romani (non volgare anzi, ma piuttosto squallida parlata) è il più brutto dei volgari italiani — il che non è strano, perché anche nei loro brutti usi e costumi i Romani appaiono più lerci di tutti gli altri popoli. Essi dicono: Messure quinto dici?
Strappiamo poi via gli abitanti della Marca d’Ancona....
Togliamo poi via i Milanesi, i Bergamaschi e i loro vicini.
Scartiamo poi la gente di Aquileia e dell’Istria, che dice, pronunciando crudamente le parole: Ces fas-tu?. E con loro eliminiamo anche ogni parlata montana e campagnola…
Eliminiamo anche i Sardi (che non sono Italiani, ma sembrano accomunabili agli Italiani) perché essi soli appaiono privi di un volgare loro proprio …

XII Abbiamo, per così dire, tolto la pula ai volgari italiani: facciamo ora un confronto fra quelli che sono rimasti nel vaglio e scegliamo rapidamente il volgare più onorevole e onorifico.

Consideriamo anzitutto il siciliano: vediamo infatti che questo volgare arroga a sé una fama superiore agli altri volgari, sia perché col nome di «siciliana» viene indicata tutta la produzione poetica degli Italiani, sia perché troviamo che molti maestri nativi di Sicilia hanno composto poesia elevata…
Tuttavia, se osserviamo bene dove va a parare questa fama della Trinacria, vediamo che il suo permanere torna soltanto a vergogna dei principi italiani, che, dediti alla superbia, si comportano da plebei e non da grandi uomini. L’imperatore Federico e il suo nobile figlio Manfredi, che furono signori grandi e illustri, mostrarono l’elevatezza e la rettitudine della loro anima, dedicandosi, finché la fortuna lo permise, alle attività proprie dell’uomo e sdegnando quelle da bestie. Fu per questo che chi era dotato di nobile cuore e ricco di doni divini cercò di star accanto alla maestà di tali principi; di conseguenza, tutto ciò che a quei tempi fu prodotto da Italiani di animo insigne, nacque prima di tutto nella reggia di così grandi sovrani. La sede del trono regale era però in Sicilia, e perciò avvenne che tutta la produzione volgare dei nostri predecessori fosse chiamata «siciliana»: nome che noi conserviamo ancora e che neanche i posteri sapranno mutare.
Ma è meglio ritornare al nostro argomento invece che parlare invano. Affermiamo dunque che, se vogliamo intendere per volgare siciliano quello che esce dalla bocca del siciliano medio (e pare che su questo appunto si debba fondare il nostro giudizio), esso non è affatto degno dell’onore del primo posto. Presenta infatti una certa lentezza nella pronuncia, come, per esempio:
Tragemi d’este focora se t’este a bolontate.
Se invece vogliamo intendere per volgare siciliano quello che proviene dalla bocca dei primi fra i Siciliani, e che si può cogliere nelle canzoni precedentemente citate, esso non è affatto diverso dal volgare più pregevole, come dimostreremo in seguito.
Anche gli Apuli, o per la loro asprezza o per il contatto con i loro vicini (che sono i Romani e i Marchigiani), parlano in modo brutto e scorretto …
Pertanto, se si considera quanto sopra, deve apparire chiaro che né il siciliano né l’apulo si possono identificare col più bel volgare d’Italia: abbiamo infatti dimostrato che gli scrittori eloquenti di quelle regioni si sono staccati dal proprio volgare.

XIII Veniamo poi ai Toscani, che, fuor di senno per la loro pazzia, vogliono chiaramente arrogarsi la gloria del volgare illustre. E questa non è soltanto una folle pretesa del volgo: sappiamo infatti che tale opinione è stata sostenuta da parecchi uomini famosi…Poiché dunque i Toscani più degli altri imperversano in questo loro farneticare da ubriachi, appare giusto e utile prendere ad uno ad uno i volgari municipali della Toscana e spogliarli un po’ della loro vanagloria. Parlando infatti dicono: i Fiorentini: Manichiamo, introcque che noi non facciamo altro ; i Pisani: Bene andonno li fatti de Fiorensa per Pisa ; i Lucchesi: Fo voto a Dio ke in grassarra eie lo coniano de Lucca; i Senesi: Onche renegata avess’io Siena. Ch’ee questo?; gli Aretini: Vuo’ tu venire ovelle? …Tuttavia, benché quasi tutti i Toscani siano ottenebrati dal loro brutto gergo, noi sappiamo che alcuni di loro hanno conosciuto il volgare più eccellente: cioè Guido, Lapo e un altro poeta, fra i Fiorentini, e, a Pistoia, Cino, cui noi ingiustamente, perché costretti da giusta ragione, assegniamo ora l’ultimo posto. Pertanto, se esaminiamo le parlate toscane e consideriamo come i sullodati personaggi si siano staccati dal proprio linguaggio, non rimane dubbio che il volgare da noi cercato sia un altro e non quello raggiunto dalla gente di Toscana.

XIV Traversiamo ora gli omeri frondosi dell’Appennino e battiamo rapidamente, come siamo soliti, il lato sinistro d’Italia, cominciando da oriente.

Entrando dunque in Romagna, affermiamo di aver trovato che in Italia esistono due volgari che si contrappongono, accordandosi in certe loro caratteristiche opposte. Uno di essi ha tale mollezza di vocaboli e di pronuncia e appare tanto femmineo da far prendere per donna un uomo, anche se parla con voce virile. …
Neppure i Veneziani si rivelano degni dell’onore di quel volgare che noi ricerchiamo…
Pertanto, a tutti i volgari che compaiono in giudizio nel presente capitolo sentenziamo che quel volgare illustre che cerchiamo non è né il romagnolo, né quello che secondo la nostra definizione è il suo opposto, né il veneziano.

XV Cerchiamo ora di esaminare speditamente ciò che rimane della selva italica.

Affermiamo dunque che forse non è sbagliata l’opinione di chi dice che il linguaggio parlato dai Bolognesi è il più bello. Essi accolgono infatti nel proprio volgare qualcosa del volgare dei circostanti Imolesi, Ferraresi e Modenesi, come, a quel che congetturiamo, fa chiunque con i propri vicini. Lo mostrò per la sua Mantova (che confina con Cremona, Brescia e Verona) Sordello, che, essendo un così grand’uomo nell’eloquenza, abbandonò il volgare patrio non solo nel comporre poesia, ma anche in qualsiasi modo si esprimesse. I suddetti cittadini di Bologna ricevono dunque dolcezza e mollezza dagli Imolesi, prendono invece dai Ferraresi e dai Modenesi una certa qual asprezza, che è propria dei Lombardi e che, a nostro avviso, è rimasta ai nativi di quella regione in seguito alla mescolanza con gli stranieri Longobardi. È questa la ragione per cui fra Ferraresi, Modenesi e Reggiani non troviamo alcuno che abbia composto poesia. Essi infatti sono abituati alla propria asprezza e non possono in alcun modo pervenire al volgare regale senza una certa quel durezza; il che è tanto più vero se riferito ai Parmigiani, che dicono monto invece di «molto».
Se dunque, come abbiamo affermato, i Bolognesi accolgono certe caratteristiche tanto dagli Imolesi quanto dagli altri, è ragionevole che il loro linguaggio, grazie alla mescolanza dei contrari che si è detta, risulti ben contemperato in una lodevole soavità; e a nostro giudizio le cose stanno indubbiamente così. Pertanto, se quelli che assegnano ai Bolognesi il primo posto nell’ambito della lingua volgare si limitano a istituire un confronto fra i volgari municipali d’Italia, ci trovano volentieri d’accordo; se invece ritengono che il volgare bolognese debba avere il primato in assoluto, ci trovano in completo dissenso e disaccordo. Esso non è infatti quel volgare che noi definiamo regale e illustre, perché, se lo fosse, non si sarebbero staccati dal proprio volgare il grandissimo Guido Guinizelli, e gli altri che composero poesia a Bologna: maestri davvero illustri e pieni di discernimento nel giudicare i volgari. Si considerino il grandissimo Guido:
Madonna, ’l fino amore ch’io vi porto; ….
Parole queste che sono invero del tutto diverse da quelle usate dagli abitanti del centro di Bologna.

XVI

Abbiamo battuto i boschi e i pascoli d’Italia senza trovare la pantera che inseguiamo: applichiamo dunque per la sua scoperta un metodo di indagine più razionale, nell’intento di avviluppare nei nostri lacci questa fiera che fa sentire il suo profumo ovunque senza mostrarsi in nessun luogo.Dichiariamo che in Italia il volgare illustre, cardinale, regale e curiale è quel volgare che appartiene a tutte le città italiane senza apparire proprio di alcuna di esse, quel volgare con cui vengono misurati, valutati e confrontati i volgari italiani.

lib. II, cap. IX  “Ma ricerchiamo perché principalmente si sia in triplice maniera diversificato e perché ciascuna di queste varietà si diversifichi entro se stessa, per esempio la parlata della destra d' Italia da quella che è della sinistra (infatti in un modo parlano i Padovani, in un altro i Pisani); e perché quelli che abitano più vicino differiscano ancora nel parlare come Milanesi e Veronesi, Romani e Fiorentini, ed inoltre quelli che s' accomunano nella stessa stirpe di popolo, come Napoletani e Gaetani, Ravennati e Faentini; e, ciò che fa più maraviglia, quelli che dimorano sotto uno stesso cittadino reggimento, come i Bolognesi del Borgo di San Felice ed i Bolognesi di Strada Maggiore. Perché avvengano tutte queste differenze e mutamenti nelle parlate, sarà manifesto in un' unica e medesima ragione”

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La lingua di Dante nata a tavolino (grazie a Illumination School

Più di un poeta: diede un’unica voce agli italiani e, attraverso quella, un’identità nazionale
Ida Bozzi, “Corriere della Sera”, 27 dicembre 2015
Non sono soltanto motivi di ovvia cronologia a porre Dante Alighieri (1265-1321) al principio di un’organica storia della letteratura italiana. Nell’anno del 750° anniversario della nascita, pare necessario ricordare che Dante non è stato solamente in senso stretto il primo grande poeta italiano: il valore storico della sua figura si affianca a quello linguistico, decisamente irripetibile, e a quello simbolico, che è stato non meno importante, specie in particolari momenti di svolta che il Paese ha conosciuto. Insomma, l’Alighieri ha fatto così tanto per la nostra letteratura, ma anche per la nostra identità culturale, che il primo posto gli spetterebbe in ogni caso di diritto: e infatti proprio con il volume dedicato al grande fiorentino si apre la collana di Storia della letteratura italiana che accompagnerà nelle prossime settimane in edicola il «Corriere della Sera».
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Al poeta fiorentino della Commedia è dedicato il primo volume, curato appunto da Enrico Malato: qui si illustra il quadro complessivo dell’epoca, si analizzano la vita e l’opera nel suo complesso, si illustrano gli elementi fondamentali del contesto, ed emerge l’importanza della figura dantesca. Bisogna pensare che la grande attenzione riversata in questi anni sulla Commedia, con le letture, i reading e le maratone nei teatri, nelle piazze e in televisione, mettono in luce soprattutto il nostro legame emotivo con il grande poema, la bellezza della sua poesia, il suo peso teologico e filosofico, l’immaginazione senza limiti, la perfezione dello schema. Ma c’è altro per cui amare il sommo poeta.
«La cosa geniale di Dante — chiarisce Malato — è che lui ha l’intuizione della lingua italiana che verrà. Era una scommessa e l’ha vinta, e ha visto molto lontano. Bisogna pensare che all’epoca già si scriveva in volgare, ma soltanto le piccole cose, le novellette, qualche poesia. Il volgare non pareva una lingua in grado di concepire grandi opere del sapere. La costruisce lui. Costruisce la lingua italiana praticamente a tavolino, inventandola passo per passo, e tra l’altro coniando centinaia e centinaia di neologismi». Ne fa una lingua, insomma, e una lingua capace in sostanza di ogni complessità: del tono basso, degli argomenti medi della vita quotidiana, così come della poesia più sublime e delle altezze vertiginose del pensiero più alto. La crea e la plasma.
«Ma in più — aggiunge il curatore — la rende anche unica in Europa. Perché? Bisogna pensare a tutte le altre lingue europee: nelle aree che poi saranno l’Inghilterra, la Francia, la Spagna, il volgare che diventa lingua nazionale lo fa in tutt’altro modo, e cioè attraverso l’imposizione, sotto la pressione di una conquista militare o strategica, e quando nel Cinquecento le lingue nazionali subiranno una grande trasformazione, noi saremo già trecento anni avanti! La lingua italiana è l’unica plasmata sostanzialmente a tavolino, e imposta non per la pressione militare o la conquista, o per il prevalere di una dinastia sull’altra, di un volgare sull’altro, ma perché il prestigio e la fortuna dell’opera dantesca erano veramente enormi. Dante vide giusto, con consapevolezza, per il futuro: nel De vulgari eloquentia Dante parla già (in latino) di una “casa degli italiani”, in un’epoca in cui sul territorio del nostro Paese c’erano 300 staterelli e stati, alcuni grandi come regioni, altri piccoli come città. Lui capisce che c’è una comunità di sentimento».
Ecco perché costruire una storia della letteratura italiana significa dare una definizione della nostra identità culturale, prosegue Malato: «La lingua è il nostro tratto identificativo, e la dobbiamo a Dante».
Poi la storia della letteratura continua, e le vicende della civiltà italiana sono un caleidoscopio di scoperte. «Pensiamo a Petrarca. Se Dante ha scritto il grande poema, e nonostante i molti imitatori resta inimitabile, anche Petrarca ha avuto un’importanza grandissima nella nostra letteratura: ha avuto dietro al suo Canzoniere uno sciame di almeno 300 anni tra imitatori e influenze sulla poesia. E il Quattrocento? È l’epoca in cui torna in auge quale lingua culturale il latino, lingua dell’Umanesimo ma anche, in parte, lingua della scienza. E così via. I curatori dei singoli volumi di questa storia della letteratura sono tutti massimi specialisti di ciascun autore, e offrono in modo molto aperto e molto ampio una visione complessiva dell’epoca considerata. In modo da spiegare che cosa noi siamo oggi, da dove sorge la nostra identità».
Un’identità fortemente incarnata però proprio nella figura d’apertura, nel primo poeta italiano, come conclude il docente: «Proprio quest’anno abbiamo celebrato il 750° anniversario della nascita di Dante. Ma ci fu un momento in cui queste celebrazioni ebbero un potente significato simbolico: l’Unità d’Italia si compì nel 1860-61 ma, quando nel 1865 si celebrò l’anniversario della nascita del poeta, Trieste, Trento, Verona e altre città erano ancora in mano agli austriaci. E così partecipare in quelle città alle grandi celebrazioni dantesche significava celebrare l’Italia. E perfino oggi, non è finita qui: l’Alighieri è tuttora uno dei poeti più studiati al mondo, la cosa incredibile è che a 750 anni dalla nascita, ancora escono su di lui e le sue opere circa 1.000-1.500 libri all’anno, io stesso sto lavorando a un saggio in cui, ancora, qualcosa di nuovo sul poeta viene scoperto».
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LA COMMEDIA




Le fonti della “Commedia” (dal College Sismondi gruppo italiano)
 Il proposito, espresso al termine della Vita Nuova di dedicare all'amore per Beatrice una più degna trattazione, collegata ad "una mirabile visione", si inseriva in una tradizione letteraria di visioni allegoriche, tradizione che nella Commedia avrà un contenuto escatologico e una finalità profetica. Tutto ciò non era nuovo alla cultura del Medioevo, ricca di opere ispirate ai Vangeli, soprattutto a quelli Apocrifi: dalla Visio Sancti Pauli alla Navigatio sancti Brandani, dal Purgatorio di san Patrizio alla Visio Alberici e alla Visio Tungdali, sino a giungere ai poemetti in volgare molto diffusi nell'età giovanile di Dante, e cioè il De Jerusalem coelesti e il De Babilonia civitate infernali di Giacomino Veronese, il Libro delle tre scritture di Bonvesin da la Riva, il Libro de' Vizi e delle Virtudi del fiorentino Bono Giambani (quest'ultimo certamente più vicino alle consuetudini di lettura di Dante giovane). È stata poi avanzata l'ipotesi che Dante s'ispirasse ad un'opera musulmana, il Libro della Scala (tradotto dall'arabo in castigliano per ordine di re Alfonso), in cui si narra il mi'rag, cioè la salita al cielo di Maometto. Non è facile affermare di quante e quali “leggende”, nordiche o italiane od orientali, Dante avesse conoscenza diretta o impropria, anche se è indubbio che la vastissima tradizione letteraria non gli era nel complesso ignota; si può al massimo ritenere che qualche barlume di quelle letture, una sola immagine o una parte d 'immagine, siano rimasti nella sua “memoria” poetica così eccezionalmente prensile e durevole. Quel che va negato è che la Commedia in quanto tale possa essere stata concepita, strutturata ed espressa sulla base determinante di questa tradizione escatologica.
Le due vere “fonti” del poema sono l’Eneide di Virgilio, come costante ricordo d'una grande esperienza letteraria di descrizione di una discesa agl’Inferi, e la Bibbiacome somma di visioni profetiche, come grande costruzione mistico - visionaria. Accanto alle due “fonti” vere e proprie si colloca un'intensa lettura di classici pagani e cristiani, dall’Etica nicomachea e dalla Retorica di Aristotele al De officiis di Cicerone, dagli elementi morali insiti in Virgilio e in Stazio alle visioni mistiche dei Padri della Chiesa Occidentale, per giungere a sant’Alberto Magno, a san Bonaventura a san Tommaso d'Aquino : testi del tutto ignoti o comunque non operanti negl’indotti autori di poemi e poemetti duecenteschi. Sarà opportuno citare qualche esempio: l'idea di collocare il Paradiso terrestre sopra la vetta d'un alto monte è già nei Padri della Chiesa Orientale, e in san Bonaventura è presente l'idea di situarli in un'atmosfera pura; la struttura del Paradiso si riallaccia alla concezione di san Tommaso dei tre gradi conoscitivi. La topografia morale dell'Inferno è basata sullo schema aristotelico dei peccati. Il poema, che riflette intero ogni aspetto di Dante poeta, c 'è innanzi per testimoniare, con la prodigiosa varietà degli effetti come egli non leghi la propria poesia ad un particolare clima dello spirito; e perciò non può essere vincolato a schemi ristretti che ne impoveriscano la figura, facendolo poeta di questo o di quell'aspetto della vita spirituale. In realtà la Commedia trova la propria poesia nella più varia e complessa umanità in una serie pressoché infinita di sentimenti acutamente sofferti; e perciò il segreto per comprendere il tono molteplice di quella poesia sta nel conoscere Dante uomo e nell'individuare il nodo intorno al quale sta salda la sua personalità.
(da Giorgio PETROCCHI, Per conoscere Dante e la Divina commedia, Torino, 1988, pp. 33 -34)

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Incipit
Inferno, canto I


    Nel mezzo del cammin di nostra vita 
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita. 





Cesare Segre sul concetto di viaggio nella Commedia scrive:
" ...La Commedia si collega nella sua stessa genesi ai viaggi nell'altro mondo e agli affini viaggi allegorico-didattici, che spesso del resto contengono un itinerario oltremondano . Già il termine "viaggio" è sintomatico. 
Queste composizioni si definiscono spesso viaggi (si veda l'anonimo Iter ad Paradisum del sec. XII; lo [pseudo] Raoul de Hou-denc [1170-1230?], Baudouin de Condé [attivo 1240-1280], Rutebeuf [morto 1285] e Jean de la Mote [attivo 1325-1350] scrivono, ognuno, una Vote de paradis) o pellegrinaggi (Guillaume de Diguleville [1295-1358?], che scrive tre Pèlerinages, il primo de vie humaine, il secondo de l'ame, il terzo Jésu-Christ; verrà seguito dal Pilgrim's progress di Bunyan).
È il primo termine, viaggio, quello che Dante predilige, dato che usa la parola peregrino a proposito dei veri pellegrini («Sì come i peregrin pensosi fanno», Purg. XXIII, 16) o in senso figurato, anche a Purg. II, 63 («ma noi siam peregrin come voi siete»), dove significa piuttosto 'forestiero'. Naturalmente non parlo delle visioni, perché in esse il tempo è sottratto ai condizionamenti del calendario e dell'orologio, e alle richieste della verisimiglianza.
I viaggi allegorico-didattici sono (in tutto o in parte) rassegne animate di ipostasi di virtù e vizi, i cui discorsi costituiscono nella loro successione un programma d'insegnamento religioso-morale. Il loro sviluppo nel tempo è perciò sottolineato dagli autori con soste e soggiorni in successive "stazioni".

Il procedimento narrativo è già presente nelle parabole De pugna spirituali e De fuga et reductione filii prodigi di san Bernardo di Chiaravalle, posto da Dante, si sa, in Paradiso, che sono l'archetipo dei viaggi allegorico-didattici. Ma anche nei viaggi nell'altro mondo il riferimento alle tappe è spesso assai curato. Nella Navigatio Sancti Brendani (sec. X), i monaci navigatori approdano spesso in isole dove trovano monasteri o padiglioni nei quali vengono ospitati anche per qualche giorno.
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Divina Commedia – cronologia interna: il tempo del viaggio

L'anno è il 1300 (cfr. Purgatorio II, 98-99, dove il musico Casella fa riferimento al Giubileo). La durata complessiva del viaggio è di 7 giorni circa (numero dalla simbologia ricca: i giorni della creazione, le virtù cardinali e teologali, i sette doni dello spirito santo ecc.).
Gli studiosi dibattono tuttora sulla datazione in cui Dante immagina il proprio viaggio nell'aldilà, e, tranne che per l'anno, le ipotesi sono molteplici. Ci limiteremo pertanto alla sintesi delle principali:
• la prima colloca il viaggio fra l'8 e il 15 aprile del 1300 (secondo Sapegno);
• la seconda lo colloca fra il 25 marzo e il 1° aprile del 1300 (secondo Porena, Sermonti e altri prima di lui).
Il punto di partenza per determinare la cronologia del viaggio dell'io agens è Inferno XXI, 112-114:
in quel momento sono le sette del mattino del sabato santo del 1300, il 9 aprile o il 26 marzo.
Di conseguenza:
• la notte fra giovedì e venerdì santo (dunque fra 7 e 8 aprile oppure fra 24 e 25 marzo) Dante si trovava nella selva oscura ("la notte ch'i' passai con tanta pièta"); solo i primi dodici versi del I canto dell'Inferno fanno riferimento alla notte, perché subito dal v. 13 i raggi del sole annunciano l'alba;
• alla mattina dell'8 aprile - o del 25 marzo - (venerdì santo), Dante esce dalla "selva oscura" e inizia la salita del colle, ma viene messo in fuga dalle tre fiere e incontra Virgilio;
• al tramonto della stessa giornata, Dante e Virgilio iniziano la visita dell'Inferno, che dura circa 24 ore (cfr. Inf. XXXIV, 68-69) e termina quindi al tramonto del 9 aprile (o del 26 marzo). Nel superare il centro della Terra attraverso la "natural burella", però, Dante e la sua guida retrocedono di 12 ore (rispetto a  Gerusalemme), poiché il Purgatorio si trova nell'emisfero australe (sono invece 9 ore dall'Italia), per cui è mattina quando essi intraprendono la risalita, che occupa tutto il giorno successivo (9 aprile o 26 marzo).
• la visita del Purgatorio inizia all'alba della domenica di Pasqua (10 aprile o 27 marzo); essa dura tre giorni e tre notti (cfr. canti IX 1-12, XIX 1-9 e XXVII 88-93). All'alba del quarto giorno (13 aprile o 30 marzo), dopo il sogno nell'ora che la precede (XXVII 94 ss.), Dante entra nel Paradiso Terrestre e vi trascorre la mattina intera: qui incontra Matelda (XXVII), vede la processione, nella quale appare Beatrice (XXX), si accorge della scomparsa di Virgilio e, dopo l'immersione nel Lete e nell'Eunoè, Dante è pronto a salire (XXXIII);
• a mezzogiorno della stessa giornata, Dante e Beatrice salgono in cielo (Par. I). Da qui in avanti non vi sono più indicazioni temporali precise, salvo che nel cielo delle stelle fisse trascorrono circa sei ore (come si evince dalla perifrasi astronomica di Par. XXVII, 79-81,
quando Dante guarda la terra da lassù e si accorge dell'arco percorso). Alcuni studiosi calcolano un tempo simile anche per gli altri cieli, così che la visita del regno celeste durerebbe un po' più di due giorni (54 ore circa). Il viaggio terminerebbe quindi il 15 aprile o il 1 aprile.

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DANTE E L'INVENZIONE DELLA TERZINA INCATENATA O TERZA RIMA